Avrei preferito che fosse stato felice invece di lasciarci poesie infelici.
(Jack Kerouac)
… io non lo so, sono letteralmente molto egoista, non so come avrei fatto a straziarmi le budella senza Baudelaire, a volte. Altre volte, invece, sono bravissima da sola.
Le vicende della vita bastarda mi hanno tenuto lontano dal ricordare la morte di questo mio altro Charles, amante letterario, avvenuta il 31 agosto 1867 a Parigi.
Ahhhhhhh. Povero, povero Charles. Te ne sei andato male, malissimo. Molto malato, disperato e giovane. Però, però… però, almeno, sei scomparso fra le braccia della persona che hai sempre desiderato e temuto di amare in modo non corrisposto. La bella (non so se fosse bella in verità, ma penso di sì, almeno per te) Caroline Archimbaut-Dufays. Tua madre.
Dietro un poeta infelice e tormentato c’è sempre una madre tiranna.
All’inizio andava tutto bene, ma poi lei si è risposata con il generale Aupick e mai più nulla fu come prima. Dispotico, arrogante. Totalitario. Non proprio il tipo adatto a il fare il padre a uno come te, Charles. Chissà quanta colpa fu di Aupick, quanta di Caroline, chissà quanti sedimenti di terrore tu hai stratificato sulla reale situazione, fatto sta che hai sofferto come un animale selvatico ferito, di quelli che non si lasciano curare.
Alcol, oppio, laudano, prostitute, amanti, arte, poesie. Erano le tue cure fallaci che non ti hanno guarito, semmai distratto e aiutato a guidare fino al capolinea a 46 anni.
Non scelgo, per ricordarti, una delle tue poesie che mi hanno pasciuto e tormentato. Scelgo una delle lettere che hai scritto a tua madre l’anno prima di morire e che lei avrà letto, ne sono sicura, infradiciandola di lacrime.
Parigi, 20 ottobre 1866
Cara madre,
ancora una volta abbiamo litigato.
Siete tornata ad Honfleur. A questo punto non so se ci rivedremo più.
Voglio ancora una volta aprirti tutta la mia anima, anima che tu non ha mai apprezzato né conosciuto.
Te lo scrivo senza esitazione, tanto so che è vero.
Ci fu nella mia infanzia un’epoca di amore appassionato per te.
Mi ricordo di una passeggiata in fiacre (carrozza, n.d.r.). Eri appena uscita da una casa di cura e, per provarmi che avevi pensato a me, mi mostrasti dei disegni a penna che avevi fatto per tuo figlio.
Ti rivedo nella tua camera o in salotto mentre lavori, attiva, in movimento e brontoli, rimproverandomi da lontano. E poi rivedo tutta la mia infanzia trascorsa accanto a te.
Ricordo le lunghe passeggiate e le perenni tenerezze materne.
Forse quel tempo – bello per me – fu brutto per te. Te ne chiedo scusa. Ma io vivevo in te, tu appartenevi soltanto a me. Ti stupirai che ricordi un tempo così remoto ma come sai, all’approssimarsi della morte, i fatti antichi si dipingono più vividi nell’anima.
Poi tu sai quale educazione atroce tuo marito ha voluto darmi. Ancora adesso penso con dolore ai collegi ed al timore che il mio patrigno mi ispirava. Eppure l’ho amato e oggi ho abbastanza saggezza per rendergli giustizia. Ma in fondo fu ostinatamente maldestro.
Passo oltre, perché vedo delle lacrime nei tuoi occhi.
Ho saputo fuggire da quella prigione, ma da quel momento sono stato completamente abbandonato.
Solo dal piacere fui attratto, da un’eccitazione perpetua, i viaggi, i bei mobili, i quadri, le ragazze.
Per questi miei vizi ho scontato le mie pene.
Quanto al consiglio giudiziario solo una cosa ho da dire (la madre lo fece interdire e affidò l’eredità ricevuta dopo la morte del padre naturale, ormai dimezzata, ad un notaio, n.d.r.). Oggi conosco l’immenso valore del denaro e capisco che tu abbia potuto credere di essere abile e di adoperarti per il mio bene. Ma c’è una domanda che mi ha sempre ossessionato: come è possibile che non ti sia venuta in mente questa idea: “Può darsi che mio figlio non abbia mai – quale io la posseggo – una regola di vita; ma potrebbe anche darsi che diventasse un uomo notevole sotto altri aspetti. In questo caso, cosa farò? Lo condannerò a trascinarsi sino alla vecchiaia un marchio deplorevole; un marchio che nuoce, una ragione di impotenza e di tristezza?”
È evidente che se non ci fosse stato il consiglio giudiziario, tutto sarebbe stato mangiato. Sarebbe stata la necessità, allora, a farmi acquistare il gusto del lavoro. Il consiglio giudiziario c’è stato, e tutto è comunque mangiato… ed io sono vecchio ed infelice.
I fatti hanno dimostrato che sei caduta in errore credendo che interdirmi avrebbe rappresentato un incentivo.
Perché mi procurasti una sofferenza così intensa e compisti un gesto del tutto offensivo, proprio quando il successo poteva arridermi? Perché si volle punire un uomo solo per aver mancato i propri sogni?
La verità, quindi, mia piccola madre, è che non mi hai mai compreso. Sì, hai saputo sacrificarti per me, ma nel farlo non capivi che io possedevo esattamente la scienza della vita, anche se non ho mai avuto la forza di metterla in pratica.
Tu mi parlavi della mia facilità. Facilità nel concepire le cose? O facilità nell’esprimerle? Non ho mai avuto né l’una né l’altra e, quel poco che ho fatto, è solo il risultato di un lavoro dolorosissimo.
Cara Madre mia, noi eravamo evidentemente destinati ad amarci e a vivere l’uno per l’altra, tuttavia sono stato sempre convinto che uno di noi avrebbe ucciso l’altro e che alla fine ci uccideremo a vicenda. Dopo la mia morte tu non vivrai, lo so. Io sono l’unico oggetto che ti faccia vivere!
Sappi che per me è stato così doloroso sentirmi impotente, darti sollievo e consolarti, rincuorarti. Questa è stata la sofferenza più difficile da sopportare.
Spero che tu sappia perdonare tutte le pene che ti ho dato. Io, in questo letto, proverò a perdonare le tue.
Ti abbraccio. Non dimenticarmi.
Nessuno ti dimenticherà, Charles, nessuno. ❤
[…] Non mi resta altro che leggere questa poesia di Baudelaire. […]