La banalità del male

Il “male” è un pensiero che di recente mi tormenta. Intendo il male vero, quello ha a che fare con la violenza, la tortura, l’assassinio, la persecuzione.

Il male è sotto gli occhi di tutti, anche di chi non lo vuole vedere.

Hannah Arendt, filosofa e scrittrice, ha pubblicato un saggio nel ’63, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme. In questo scritto, che tratta del processo al gerarca nazista, la Arendt sostiene una tesi inconsueta a proposito dell’essenza del male.

Com’è possibile che un popolo intero abbia approvato e sostenuto il nazismo (ovvero: com’è possibile che il mondo intero oggi approvi e sostenga sistematicamente guerre e continui stermini)?

Vi risponde lei.

Quel che ora penso veramente è che il male non è mai ‘radicale’, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso ‘sfida’ come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua ‘banalità’. Solo il bene è profondo e può essere radicale.

Non era stupido, era semplicemente senza idee […]. Quella lontananza dalla realtà e quella mancanza di idee, possono essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell’uomo. Questa fu la lezione di Gerusalemme. Ma era una lezione, non una spiegazione del fenomeno, né una teoria.

Le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso.

La triste verità è che molto del male viene compiuto da persone che non si decidono mai ad essere buone o cattive.

Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto oppure il comunista convinto, ma le persone per la quale non c’è più differenza tra realtà e finzione, tra il vero e il falso.

Tu chiamala, se vuoi, ignoranza.