La perdita dell’innocenza. Stand by me

L’ho letto d’estate e anche se mi fa abbastanza schifo l’espressione “libro per l’estate”, Stagioni diverse è un perfetto “libro per l’estate“. Tutti conoscono Stand by me, l’adattamento cinematografico di uno dei racconti della raccolta, che in verità si chiama L’autunno dell’innocenza. Il corpo.

Anzi, in verità si chiamerebbe The body. Fall from innocence, dove il sottotitolo ha una sfumatura un po’ diversa, anche se fall, di fatto, vuol dire autunno. In ogni caso, Stand by me, o chiamiamolo come più ci pare, è una storia sul diventare grandi e, quindi, sulla perdita dell’innocenza.

Ma nel ricordo che ne ho io, nella scena che più mi è rimasta attaccata al cervello, alla quale ho spesso pensato e che oggi mi è tornata mi è tornata in mente, questo è un racconto nel quale l’innocenza si ritrova, sempre.

Incollo la mia scena epifanica ed eterna: la scena della daina (sì, l’animale) nel bosco.

Gli altri dormirono pesante per il resto della notte. Io continuavo a fare dentro e fuori, sonnecchiavo, mi svegliavo, sonnecchiavo di nuovo. La notte era tutt’altro che silenziosa; sentivo il verso trionfante del gufo che piombava sulla preda, l’esile grido di qualche piccolo animale forse sul punto di essere mangiato, un qualcosa di più grosso strisciare irrequieto nell’intrico del sottobosco. Sotto tutto questo, il canto continuo dei grilli. Di quelle urla non se ne sentirono più. Sonnecchiavo e mi svegliavo, sonnecchiavo e mi svegliavo e probabilmente se fossi stato scoperto a fare la guardia in questo modo a Le Dio, sarei stato portato davanti alla corte marziale e fucilato. Feci un sobbalzo più forte uscendo dal mio ultimo sonnellino e mi resi conto che c’era qualcosa di cambiato. Mi ci volle un momento per capire cosa: anche se la luna era tramontata, potevo vedere le mani appoggiate sui jeans. L’orologio diceva cinque meno un quarto. Era l’alba. Mi alzai, sentendo la spina dorsale che mi scricchiolava, mi allontanai di una ventina di passi dai corpi ammucchiati uno accanto all’altro dei miei amici, e orinai nei cespugli. Cominciavo a scuotermi di dosso le ragnatele della notte: le sentivo allontanarsi. Era una bella sensazione. Mi arrampicai sui ciottoli della linea della ferrovia e mi misi seduto su uno dei binari, giocherellando oziosamente con i sassi tra i piedi, senza fretta di svegliare gli altri. In quel momento preciso il nuovo giorno pareva troppo bello per dividerlo con altri. Il mattino arrivò presto. Il verso dei grilli cominciò a calare, e le ombre sotto gli alberi e i cespugli evaporarono come pozzanghere dopo un acquazzone. L’aria aveva quella tipica mancanza di sapore che presagisce l’ultimo giorno caldissimo di una serie di giorni caldissimi. Uccelli che probabilmente erano rimasti rintanati tutta la notte come noi ora cominciavano a trillare con aria di importanza. Uno scricciolo si posò in cima all’albero morto da cui avevamo preso la legna, si lisciò le penne col becco, e poi spiccò il volo. Non so quanto tempo rimasi seduto lì sulla rotaia, a guardare il colore viola uscire dal cielo, silenzioso come la sera prima quando ci era entrato. Abbastanza, comunque, perché il mio sedere cominciasse a lamentarsi. Stavo per alzarmi quando guardai verso destra e vidi una daina, sul letto della ferrovia a meno di dieci metri da me. Il cuore mi saltò in gola, così in alto che avrei potuto mettermi una mano in bocca e toccarlo. Sentii lo stomaco e i genitali riempirsi di un’eccitazione rovente. Non mi mossi. Non avrei potuto nemmeno volendo. I suoi occhi non erano marroni, ma di un nero profondo, polveroso — come il velluto che si vede sul fondo delle vetrine dei gioiellieri. Le piccole orecchie erano di una pelle vellutata. Mi guardava con tranquillità, la testa leggermente inclinata in quella che mi parve un’espressione di curiosità, a vedere un ragazzo con i capelli arruffati per il sonno, con i jeans con i risvolti e una camicia beige con le toppe ai gomiti e il colletto rialzato secondo la moda del giorno. Quello che vedevo io era una sorta di dono, un dono offerto con una disinvoltura che mi spaventava. Ci guardammo a lungo… credo che fosse a lungo. Poi si girò e si allontanò dall’altra parte della ferrovia, con la corta coda che scattava svogliata. Trovò dell’erba e prese a brucarla. Non potevo crederci. Si era messa a brucare. Non guardò verso di me, e non ne avrebbe avuto bisogno: io ero completamente paralizzato. Allora i binari si misero a tremarmi sotto il sedere e pochi secondi dopo la testa della daina si sollevò, girata verso Castle Rock. Rimase ritta lì, il naso nero che annusava l’aria. Poi in tre salti fu scomparsa, svanendo nel bosco senza altro rumore che quello di un ramo marcio, che si spezzò con uno scatto secco. Io rimasi come ipnotizzato seduto a guardare il punto dov’era stata la daina, finché lo sferragliare del treno merci non emerse dal silenzio. Allora scivolai giù dalla massicciata fino a dove gli altri stavano dormendo. Il lento, fragoroso passaggio del convoglio li svegliò, e si misero tutti subito a sbadigliare e a grattarsi. Ci furono un po’ di battute, nervose, sul «caso dello spettro urlante», come lo chiamò Chris, ma non quanto potreste immaginare. Alla luce del sole sembrava più stupido che interessante — quasi imbarazzante. Meglio dimenticare. Stavo proprio per dire della daina; ma poi finii per non farne niente. È una cosa che mi tenni per me. Finora, fino a oggi, non ne avevo mai parlato o scritto. E devo dirvi che scritto sembra una cosa di poco conto, quasi insignificante. Ma per me fu la cosa più bella della spedizione, la parte più pulita, e fu un momento a cui mi sono trovato a ritornare, quasi inevitabilmente, ogni volta che mi sono trovato in difficoltà nella mia vita — il mio primo giorno nella foresta in Vietnam, e quel tizio uscì con la mano davanti al naso nella radura dove eravamo e quando tolse la mano naso non ce n’era perché gli era stato sparato via; quella volta che il dottore ci disse che nostro figlio più piccolo poteva essere idrocefalo (poi risultò che aveva solo una testa un po’ grande, grazie a Dio); le lunghe, allucinanti settimane prima che mia madre morisse. Sempre avrei trovato che i miei pensieri tornavano a quella mattina, al morbido pelo delle sue orecchie, al lampeggiare bianco della coda. Ma a ottocento milioni di cinesi rossi non gliene frega proprio niente, giusto? Le cose più importanti sono le più difficili da dire, perché le parole le rimpiccioliscono. È difficile far in modo che un estraneo provi interesse per le cose belle della tua vita.

Saremmo fortunati se tutti avessimo una daina nel cuore.