Piove. Se vuoi fare il fico cita D’Annunzio

Di D’Annunzio si può pensare ciò che si vuole, ma con le donne e le parole ci sapeva fare. La sottoscritta si sarebbe fatta incastrare in due minuti scarsi. Ma il punto vero è che a me non mi avrebbe filato di striscio. Per dire, la poesia che copio sotto l’ha scritta per Eleonora Duse (la Divina), mica per la panettiera all’angolo (e magari io facessi la panettiera).

Comunque, quel giorno pioveva a Marina di Pietrasanta. D’Annunzio passeggiava con la Duse in una pineta vicino al mare, quando iniziò un temporale estivo. Siamo nei primi del Novecento e La pioggia nel pineto è la poesia che fotografa quel momento.

È una di quelle poesie che quando ti fanno studiare a scuola vorresti bruciare il libro con tutti i prof. d’italiano e le biblioteche del mondo. Sono centoventotto versi. Dico c-e-n-t-o-v-e-n-t-o-t-t-o, mica un haiku. E quindi, da adolescente rabbioso e spazientito, non capirai mai ciò che D’Annunzio ha fatto.

Non capisci che le parole sono diventate musica. Musica in gocce. Musica d’acqua. Musica frusciante e bagnata.

Taci. Su le soglie

del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t’illuse, che oggi m’illude,
o Ermione.

Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitío che dura
e varia nell’aria
secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
nè il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancóra, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immersi
noi siam nello spirto
silvestre,
d’arborea vita viventi;
e il tuo volto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.

Ascolta, ascolta. L’accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall’umida ombra remota.
Più sordo e più fioco
s’allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s’ode voce del mare.
Or s’ode su tutta la fronda
crosciare
l’argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell’aria
è muta; ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell’ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.

Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pesca
intatta,
tra le pàlpebre gli occhi
son come polle tra l’erbe,
i denti negli alvèoli
con come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i mallèoli
c’intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m’illuse, che oggi t’illude,
o Ermione.

Purtroppo poi con la Duse finì male, ma quello è un altro post.