“Fever 103”. La febbre a 41 di Sylvia Plath

Febbre, febbre ovunque. Nella cute, sui capelli, nell’incavo delle ginocchia, infilata sotto le unghie. Ma proprio ovunque. Dentro il naso, sopra agli occhi, nello stomaco. Spalmata su tutta la pelle e poi, oh! in testa! ben dentro il cranio e tutta intorno al cervello; nelle orecchie.

Febbre intorno ai fianchi, incastrata nell’ombelico e attorcigliata alle braccia, avvolta alle dita. Nella pancia, nella bile e in mezzo all’anima.

Non c’entra niente con me, ma qui sotto copio la poesia Febbre a 41 (Fever 103) di Sylvia Plath, della quale oggi non racconto niente perché non riuscirei a contenermi e nessuno mi capirebbe. Mi sto dunque censurando in vista di giorni migliori per la mia lingua di velluto viola.

Dico solo che ho messo la Plath su un altare alto, altissimo, talmente in alto, ma talmente tanto, tanto in alto che quasi non la vedo più. Però quando deliro dalla febbre io vedo e sento solo Lei.

Tu, Sylvia, mi hai fatto sempre male. Come nella seconda metà di questa stramaledetta poesia.

Febbre a 41

Pura? Cosa vuol dire?
Le lingue dell’inferno
Sono ottuse, ottuse come la tripla

Lingua dell’ottuso, grasso Cerbero
Che anela sulla porta. Incapace di
Sanare leccandolo

L’infiammato tendine, il peccato, il peccato.
Sfrigola l’esca da fuoco.
L’indelebile puzza

Di candela soffocata!
Si srotolano, o amore, i bassi fumi
Da me come le sciarpe di Isadora, ho terrore

Che una mi accalappi, mi ancori alla ruota.
Questi gialli tetri fumi
Si creano il proprio elemento. Né si alzeranno,

Ma intorno al globo si trascineranno
Asfissiando i vecchi e i mansueti,
Il gracile

Bebé di serra nella sua mangiatoia,
L’orchidea mostruosa
Che appende nell’aria il suo pensile giardino,

Leopardo diabolico!
La radiazione l’ha ridotto bianco
E in un’ora l’ha ammazzato:

I corpi degli adulteri la sua peste rovina
Li smangia come la cenere di Hiroshima.
Il peccato. Il peccato.

Amore mio,
Ho passato tutta la notte annaspando,
Fra lenzuola grevi come il bacio d’un perverso.

Tre giorni. Tre notti.
Limonata, brodo, acqua,
Acqua, fammi vomitare.

Per te o chiunque sono troppo pura.
Il tuo corpo
Mi offende come il mondo offende Dio. Io sono una lanterna –

La mia testa una luna
Giapponese di carta, la mia pelle oro foglia
È carissima, molto delicata.

Non ti sbalordisce il mio calore. E la mia luce.
Sola sono un’immensa camelia
Che s’infuoca e va e viene, vampa a vampa.

Penso che sto sollevandomi,
Forse mi librerò –
I grani di ardente metallo volano e io, amore, io

Sono una pura
Vergine d’acetilene
Con una scorta di rose,

Di baci, di cherubini,
Di tutto ciò che esprimono queste rosee cose.
Non tu, né quello.

Non lui, né quello
(Ogni mio io si perde, sgualdrinesco orpello) –
In Paradiso.