È questione di acqua, e di onde. Virginia Woolf

Se fossi un brano letterario sarei un soliloquio. Se fossi un elemento sarei acqua. Se fossi un romanzo, probabilmente sarei Le Onde di Nostra Signora del Flusso di Coscienza Virginia Woolf (mi inchino in segno di ammirazione e deferenza).

Dico probabilmente perché non posso paragonarmi a qualcosa di così… qualcosa per cui non mi vengono le parole. Bello? Banale. Perfetto? Non è questione di perfezione. Geniale? Non è pertinente. Capolavoro? Certo, ce ne sono tanti. Vero? Iniziamo ad esserci, ma fa poca impressione. Non mi viene.

Noi siamo acqua, e Virginia scrive storie che scorrono ovunque e ti riempiono e straripano dagli argini. I personaggi sono fluidi e le loro vite si travasano l’una nell’altra, confluiscono e poi si dividono, come il tempo che non è una linea retta, ma un fiume che avanza e si confonde col mare, finisce a riva e torna indietro. Tutto si infrange ma non muore, muta e si mischia. Ed è così.

Sono radicata, ma scorro.

Qual è la frase per la luna? E la frase per l’amore? Che nome daremo alla morte? Non lo so. Avrei bisogno della lingua speciale degli amanti, dei monosillabi che usano i bambini… Ci vuole un urlo, un grido.

Ma quando sediamo vicini, insieme, scivoliamo l’uno nell’altra, ci fondiamo con frasi e parole. Il confine tra noi sfuma, è avvolto nella nebbia. Siamo impalpabile territorio.

Non c’era una spada, niente con cui abbattere queste pareti, questa protezione, questo generare figli e diventare ogni giorno più implicati e impegnati, con libri e con quadri? Meglio bruciar la propria vita come Louis, anelando alla perfezione; e abbandonarci come Rhoda, fuggendo via da noi nel deserto; o sceglierne uno su un milione e uno solo, come Neville; meglio esser come Susan e amare e odiare il calore del sole o l’erba gelata; o essere onesti come Jinny, essere un animale. Tutti avevano il loro rapimento; il loro senso di comunità con la morte; qualcosa che riusciva loro utile. Così visitai ciascuno dei miei amici a turno, cercando con dita brancolanti di forzare i loro scrigni chiusi. Andai dall’uno all’altro porgendo il mio dolore – no, non il mio dolore, ma la natura incomprensibile di questa nostra vita – alla loro attenzione. C’è chi si rivolge ai preti, chi alla poesia; io ai miei amici, al mio cuore, a cercare tra le frasi e i frammenti qualcosa di intatto – io per cui non c’è bellezza sufficiente nella luna o in un albero; io per cui il contatto di una persona con l’altra è tutto, eppure non posso afferrare neppur questo, io che sono cosí imperfetto, debole, indicibilmente solo. Sedevo là.

Ho l’illusione per un momento che qualcosa aderisca, acquisti peso, profondità, pienezza, sia completa. Cosi, per un momento, sembra la mia vita. Se fosse possibile, te la offrirei tutta intera. La staccherei dal ramo,come si stacca un grappolo d’uva. Direi:”Prendila. E la mia vita”. Ma sfortunatamente, ciò che io vedo (questo globo, pieno di immagini), tu non lo vedi. Tu vedi me, che ti sto di fronte, seduto a tavola, un uomo piuttosto pesante, anziano, grigio alle tempie. Vedi che prendo il tovagliolo e lo piego. Vedi che mi verso del vino. E dietro di me la porta si apre, la gente passa. Ma per farti capire, per consegnarti la mia vita, devo raccontarti una storia – e sono tante, così tante, le storie – storie di infanzia, storie di scuola, di amore, di matrimonio, di morte ecc. ecc. Nessuna è vera. Eppure, come bambini ci raccontiamo delle storie, e per adornarle inventiamo queste belle frasi, ridicole, sgargianti.
Come sono stanco di storie, come sono stanco di frasi che escono così bene, con tanto di piedi per terra! E come non mi fido di quei bei progetti di vita, così precisi, tracciati su un foglio di carta da lettere. Comincio a desiderare un linguaggio a parte, come quello degli innamorati, parole smozzicate, inarticolate, simili allo scalpiccio dei piedi sul selciato. Comincio a cercare un progetto che si accordi meglio con i momenti di umiliazione e di vittoria che innegabilmente di quando in quando capitano a tutti. Disteso in un fosso in un giorno di tempesta, dopo che ha tanto piovuto, mentre nel cielo nuvole enormi avanzano in colonna, nuvole a brandelli, ciuffi di nuvole, ciò che mi piace allora è la confusione, l’altezza, l’indifferenza, la furia. Grandi nuvole sempre in moto, sempre mutevoli, un che di sulfureo,sinistro, accumulatosi  alla rinfusa, qualcosa che ci sovrasta, e si trascina, si spezza, si perde, e io dimenticato, minuscolo, in un fosso. Allora di storie, di trame, non ne vedo traccia.

Non so dire di più, e non è necessario. Sto fluendo fuori e dentro di me, qualunque cosa io sia.