La mescalina, il dottor Huxley, V. Woolf e la solitudine

I grandi scritti hanno il potere di farti schizzare i pensieri in molteplici direzioni. Ti buttano i neuroni in un frullatore, sprigionano un flusso di coscienza che copre concetti distanti fra di loro anni luce. Anche nella sola profondità del concetto stesso, ti fanno andare giù, sempre più in fondo.

E niente, volevo rileggere Le porte della percezione di Aldous Huxley per scrivere qualcosa di sensato sulle droghe, e invece a pagina 3 mi sono imbattuta in un ricordo di Virginia Woolf.

Al liceo, mentre leggevo Gita al faro, mi rimase molto impressa una frase che citerò senza aver ritrovato l’originale, quindi magari non esiste nemmeno, anche se ne sono convinta, ma non importa davvero se ci sia e se l’abbia scritta Virginia.

La frase è

La vita è qualcosa che devi affrontare da solo.

Semplice? No.

Non vuol dire che gli altri, la comunità, il prossimo, l’amore, non contano nulla e non giocano un ruolo importante. Vuol dire che tu, pur uguale a tutti gli altri, sei anche unico e per certi versi imperscrutabile. E quindi irrimediabilmente solo.

Il ricordo di questa frase, di me e del periodo in cui me la sono girata e rigirata fra le mani è stato innescato da questo signor pezzo che copio sotto.

Così avvenne che, in un luminoso mattino di maggio, ingoiai i quattro decimi di un grammo di mescalina sciolta in mezzo bicchiere d’acqua e sedetti ad attendere le conseguenze.

Noi viviamo insieme, agiamo e reagiamo gli uni agli altri; ma sempre, in tutte le circostanze, siamo soli.

I martiri quando entrano nell’arena si tengono per mano, ma vengono crocifissi soli. Allacciati, gli amanti cercano disperatamente di fondere le loro estasi isolate in una singola autotrascendenza, invano. Per la sua stessa natura, ogni spirito incarnato è condannato a soffrire e godere in solitudine. Sensazioni, sentimenti, intuiti, fantasie, tutte queste cose sono personali e, se non per simboli e di seconda mano, incomunicabili. Possiamo scambiarci informazioni circa le esperienze, mai però le esperienze stesse. Dalla famiglia alla nazione, ogni gruppo umano è una società di universi-isole.

La maggior parte degli universi-isole sono sufficientemente simili l’un l’altro da permettere la comprensione deduttiva, o anche la mutua empatia o il “sentirsi dentro”. Così, ricordando i nostri lutti e le nostre umiliazioni, possiamo addolorarci con gli altri in analoghe circostanze, possiamo metterci (sempre, naturalmente, in senso leggermente pickwickiano) al loro posto. Ma in alcuni casi la comunicazione tra gli universi è incompleta o addirittura inesistente.

La mente è il suo proprio posto e i posti abitati dal pazzo e dall’individuo dalle doti eccezionali sono tanto diversi dai luoghi dove vivono uomini e donne comuni […]. Le parole vengono pronunziate, ma non chiariscono. Le cose e gli avvenimenti ai quali i simboli si riferiscono appartengono a regni dell’esperienza che si escludono a vicenda.

Vederci come gli altri ci vedono è uno tra i doni più salutari. Appena meno importante è la capacità di vedere gli altri come essi si vedono.

Ma che accade se questi altri appartengono a una specie diversa e abitano un universo radicalmente estraneo? Per esempio, come un sano può arrivare a comprendere che cosa effettivamente prova a essere pazzo? Oppure, non potendo nascere di nuovo come visionario, medium, o genio musicale, come possiamo mai visitare i mondi che per Blake, Swedenborg, Johann Sebastian Bach, furono casa loro?

[…] Per il rigido behaviorista tali questioni, suppongo, sono prive di significato. Ma per coloro che credono teoricamente ciò che in pratica sanno essere vero – cioè che vi è un interno da sperimentare oltre che l’esterno – i problemi posti sono problemi reali, tanto più gravi perché sono, alcuni completamente insolubili, alcuni solubili solo in circostanze eccezionali e con metodi non accessibili a chiunque.

Così, sembra virtualmente certo che io non saprò mai che cosa si prova a essere Sir John Falstaff o Joe Louis. D’altra parte, sempre mi era sembrato possibile che, attraverso l’ipnosi, per esempio, o l’autoipnosi, per mezzo della meditazione sistematica, oppure prendendo la droga adatta, avrei potuto cambiare la mia coscienza ordinaria in modo da essere in grado di conoscere dall’interno ciò di cui parlano il visionario, il medium e perfino il mistico.

Da ciò che avevo letto dell’esperienza sulla mescalina, ero convinto in precedenza che la droga mi avrebbe introdotto, almeno per qualche ora, nella specie di mondo interiore descritto da Blake e da AE. Ma ciò che mi ero aspettato non accadde. Mi ero aspettato di giacere con gli occhi chiusi, guardando visioni di geometrie multicolori, di animate architetture, ricche di gemme e di favolose bellezze, di panorami con figure eroiche, di drammi simbolici tremolanti perpetuamente sull’orlo dell’estrema rivelazione. Ma non avevo calcolato, era evidente, le idiosincrasie della mia struttura mentale, i fatti del mio temperamento, della mia educazione e delle mie abitudini.

Aldous, un altro giorno parlerò di te su queste pagine e mi confonderò con le parole fino a trovarti. Chissà.