Edgar Hallan Poe amava i gatti. Ne aveva uno e lo aveva chiamato Cat-terina. Che macabro burlone!
Sarà stato l’amore per i felini misteriosi ed arcani ad ispirargli Il gatto nero (1843), racconto inserito nella raccolta Racconti del terrore (o Racconti del mistero, Racconti dell’orrore, Racconti del terrore e del grottesco…).
Come tutti i reietti, i portatori di mala sorte, gli emarginati, i disperati, i non conformi, gli incompresi, i solitari, gli umbratili, gli esseri notturni, i gatti neri sono i miei preferiti. Piccole pantere ambigue ed esoteriche.
Ieri notte mi è sembrata un’ottima ri-lettura in vista di Halloween e ne copio sotto i passi più horror.
Li dedico a colei che fu la mia gattina nera di quando abitavo in campagna e potevo avere tutti i gatti che volevo (ne ho avuti fino a dodici tutti insieme). Fra tutti, più di tutti, ho amato lei: la mia nerissima Marlene dagli occhi gialli.
Comincia così: il padrone di Plutone, il gatto nero, appunto, era un ubriacone che col tempo iniziò a trattare male la moglie e gli animali che possedevano:
Una notte, tornando a casa ubriaco fradicio, da uno dei miei soliti giri per le bettole della città, mi sembrò che il gatto evitasse la mia presenza. Lo afferrai e quello, impaurito dalla mia violenza, mi fece con i denti una piccola ferita sulla mano. La furia di un demonio si impossessò di me rendendomi irriconoscibile perfino a me stesso. Mi sembrò che la mia anima originale fosse volata via dal mio corpo ed una cattiveria feroce, alimentata dal gin, invase tutte le fibre del mio corpo. Presi dalla tasca un temperino, lo aprii, strinsi la povera bestiola alla gola e deliberatamente gli cavai un occhio dall’orbita! Arrossisco, brucio, rabbrividisco nello scrivere di questa dannata atrocità.
Plutone guarì e, se da principio l’uomo era impietosito, sempre per colpa degli stravizi, la perversione s’impossessò di lui:
Fu questa insondabile propensione dell’anima a torturare se stessa – a fare violenza alla propria natura – a compiere il male per il piace di farlo – che mi spinse a continuare e portare a termine l’offesa che avevo inflitto all’inoffensiva natura bestiola.
Una mattina, a sangue freddo, feci scorrere un cappio intorno al suo collo e l’impiccai al ramo di un albero; l’impiccai mentre le lacrime mi cadevano dagli occhi ed il più atroce rimorso tormentava il mio cuore. L’impiccai perché sapevo che mi aveva amato e perché non mi aveva dato alcun motivo di sentirmi offeso – l’impiccai perché sapevo che così facendo commettevo un peccato – un peccato mortale che avrebbe messo in pericolo la mia anima immortale così da porla – se ciò fosse possibile – al di fori persino dalla portata della infinita misericordia del Dio Più Misericordioso e Terribile.
La casa del padrone di Plutone prese fuoco. Tutto andò distrutto, meno una parete, dove si formò, in bassorilievo, la figura di un gatto con un cappio al collo. L’uomo si da’ una spiegazione logica dell’accaduto e, col tempo, sente la mancanza di Plutone. Trova un degno sostituto che poco differisce dall’originale: un bel gattone nero, ma con una macchia bianca sul petto. Lo porta a casa e inizia subito ad odiarlo, anche se si sforza di non usargli violenza.
Quello che, senza dubbio, aumentò il mio odio per la bestia, fu la scoperta, fatta il mattino dopo il suo arrivo in casa, che anche lui era privo di un occhio come Plutone.
La situazione peggiora, il gatto segue l’uomo ovunque e la macchia bianca, che aveva all’inizio dei contorni indefiniti, piano piano assume la forma di una… FORCA! L’odio per il gatto diviene ossessione e paura, che scatenano in lui moti di violenza nei confronti della povera moglie.
Un giorno ella mi accompagnò, per una qualche faccenda domestica da sbrigare, nella cantina del vecchio edificio nel quale la nostra povertà ci costringeva ad abitare ed il gatto, seguendomi giù per la scala, mi fece quasi ruzzolare a capofitto, irritandomi fino all’esasperazione. Afferrata un’ascia, dimenticando, nella mia furia, la paura infantile che aveva sempre trattenuto la mia mano, vibrai all’animale un colpo che, se fosse disceso su di lui come volevo, sarebbe stato mortale. Ma il colpo venne fermato dalla mano di mia moglie. Il suo intervento mi trascinò in una furia ancora più demoniaca; svincolai il braccio dalla sua stretta e le affondai la scure nel cervello. Ella cadde senza vita sul posto senza emettere un lamento.
E come liberarsi del corpo?
Mi vennero in mente tanti progetti. Per un momento pensai di tagliare il corpo in tanti pezzi e di distruggerlo con il fuoco, poi di scavare una fossa nel pavimento e seppellirvelo, e camuffandola come se contenesse della merce e incaricando poi un facchino di portarla via. Infine scelsi quello che mi sembrò l’espediente migliore tra tutti quelli pensati. Decisi di murare il cadavere in una parete della cantina, come si legge facessero i monaci del Medio-Evo con le loro vittime.
Il gatto scomparse, l’assassino visse giorni di pace fino al giorno in cui la polizia ispezionò la sua casa. In un eccesso di sicurezza, l’uomo bussò proprio su quel muro e…
Possa mai Iddio proteggermi e liberarmi dalla zanna dell’arcidiavolo! – non si era ancora spenta l’eco del mio colpo di bastone, che una voce rispose all’interno della tomba! – con un lamento, dapprima smorzato e rotto, come il pianto di un bambino, salito poi rapidamente ad un lungo, intenso, continuo urlo, assolutamente inumano, bestiale, – un ululato – un grido sconvolgente, per metà di orrore per metà di trionfo, quale avrebbe potuto venire solo dall’inferno, unitamente dalle gole dei dannati nella loro agonia e dei demoni esultanti nella dannazione.
Di quello che mi passo per la testa, sarebbe assurdo parlare. Sentendomi svenire, mi appoggiai alla parete opposta. Per un attimo i poliziotti rimasero immobili, in preda ad una sorta di irrazionale terrore. Subito dopo una dozzina di robuste braccia presero a demolire la parete, che cadde tutta insieme. Il cadavere, in avanzato stato di decomposizione, intriso di sangue rappreso, davanti agli occhio degli spettatori. Sulla sua testa, con la rossa bocca spalancata, con l’unico occhio di fuoco, stava l’orrenda bestia la cui astuzia mi aveva portato al delitto e la cui voce rivelatrice mi aveva consegnato al boia. Avevo murato il mostro dentro la tomba.
I racconti di Poe…quanti ricordi ero solo un’adolescente quando li lessi! forse li dovrei riprendere! Grazie per il ritorno al passato!
Grazie a te per essere passata! Sì, riprenderli in mano è stato un salto nel passato anche per me, ed è bello ricordare cosa mi suscitava leggere allora! 😉