Corsaro: dal lat. CURSUS corso (gita in mare) mediante un supp. derivato CURSARIUS (v. Correre) – Capitano di bastimento privato, che autorizzato in tempo di guerra con lettere sovrane scorre il mare a suo rischio di guadagno o di perdita, contro le navi e le cose dei nemici […] Nel linguaggio comune si usò fin d’antico e si usa tuttavia per Pirata, Ladrone di mare; già che esso pure va in corso per lo mare, onde far preda. (da Etimo.it)
Dico solo due cose e poi ascolto Pasolini (5 marzo 1922 – 2 novembre 1975) e i suoi Scritti corsari (in sintesi una raccolta di articoli scritti fra il 1973 e il 1975 nelle colonne dei maggiori quotidiani italiani):
- nelle radici amorfe e corrotte della società italiana poco è cambiato dagli anni ’70
- il giornalismo attuale, a parte rarissime eccezioni, è acqua bassa e sporca
Il potere ha avuto bisogno di un tipo diverso di suddito, che fosse prima di tutto un consumatore.
La Famiglia è tornata a diventare quel potente e insostituibile centro infinitesimale di tutto che era prima. Perché? Perché la civiltà dei consumi ha bisogno della famiglia.
La Famiglia (riscriviamola con la maiuscola) che per tanti secoli e millenni era stata lo «specimen» minimo, insieme, della economia contadina e della civiltà religiosa, ora è diventata lo «specimen» minimo della civiltà consumistica di massa.
Il bombardamento ideologico televisivo non è esplicito: esso è tutto nelle cose, tutto indiretto. Ma mai un «modello di vita» ha potuto essere propagandato con tanta efficacia che attraverso la televisione. Il tipo di uomo o di donna che conta, che è moderno, che è da imitare e da realizzare, non è descritto o decantato: è rappresentato! Il linguaggio della televisione è per sua natura il linguaggio fisico-mimico, il linguaggio del comportamento.
La rivoluzione del sistema d’informazioni è stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè – come dicevo – i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un «uomo che consuma», ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neolaico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane.
L’uomo medio dei tempi del Leopardi poteva interiorizzare ancora la natura e l’umanità nella loro purezza ideale oggettivamente contenuta in esse; l’uomo medio di oggi può interiorizzare una Seicento o un frigorifero, oppure un week-end a Ostia.
Oggi la libertà sessuale della maggioranza è in realtà una convenzione, un obbligo, un dovere sociale, un’ansia sociale, una caratteristica irrinunciabile della qualità di vita del consumatore.
In un momento storico in cui il linguaggio verbale è tutto convenzionale e sterilizzato (tecnicizzato) il linguaggio del comportamento (fisico e mimico) assume una decisiva importanza.
C’è da chiedersi cos’è più scandaloso: se la provocatoria ostinazione dei potenti a restare al potere o l’apolitica passività del paese ad accettare la loro stessa fisica presenza.
Noi siamo un paese senza memoria. Il che equivale a dire senza storia. L’Italia rimuove il suo passato prossimo, lo perde nell’oblio dell’etere televisivo, ne tiene solo i ricordi, i frammenti che potrebbero farle comodo per le sue contorsioni, per le sue conversioni. Ma l’Italia è un paese circolare, gattopardesco, in cui tutto cambia per restare com’è. In cui tutto scorre per non passare davvero. Se l’Italia avesse cura della sua storia, della sua memoria, si accorgerebbe che i regimi non nascono dal nulla, sono il portato di veleni antichi, di metastasi invincibili, imparerebbe che questo Paese è speciale nel vivere alla grande, ma con le pezze al culo, che i suoi vizi sono ciclici, si ripetono incarnati da uomini diversi con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica allergia alla coerenza, a una tensione morale.
La continuità tra il ventennio fascista e il trentennio democristiano trova il suo fondamento sul caos morale e economico, sul qualunquismo come immaturità politica e sull’emarginazione dell’Italia dai luoghi per dove passa la storia.
Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre…
I nuovi valori consumistici prevedono infatti il laicismo (?), la tolleranza (?) e l’edonismo più scatenato, tale da ridicolizzare risparmio, previdenza, rispettabilità, pudore, ritegno e insomma tutti i vecchi «buoni sentimenti».
La «continuità» della piccola borghesia italiana e della sua coscienza infelice (rifiuto della cultura, ansia della normalità, qualunquismo fisiologico, caccia alle streghe).
Il nuovo fascismo non distingue più: non è umanisticamente retorico, è americanamente pragmatico. Il suo fine è la riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo.
Qui in Italia non si può fare come si è fatto in America con Nixon, cioè cacciare via chi si è resoresponsabile di gravi violazioni al patto democratico.
L’Italia non ha avuto una grande Destra perché non ha avuto una cultura capace di esprimerla. Essa ha potuto esprimere solo quella rozza, ridicola, feroce destra che è il fascismo.
Se i sottoproletari si sono imborghesiti, i borghesi si sono sottoproletarizzati. La cultura che essi producono, essendo di carattere tecnologico e strettamente pragmatico, impedisce al vecchio «uomo» che è ancora in loro di svilupparsi. Da ciò deriva in essi una specie di rattrappimento delle facoltà intellettuali e morali.
Il consumismo altro non è che una nuova forma totalitaria − in quanto del tutto totalizzante, in quanto alienante fino al limite estremo della degradazione antropologica.
Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia.
Il graffito è di Ernest Pignon.