Spoilero subito il finale del romanzo: quel “niente di nuovo” è la morte del protagonista. Paul, soldato diciannovenne durante la Prima Guerra Mondiale. Sotto le bombe la tua vita non conta niente, nemmeno se sei il personaggio principale.
Ho fulminato il romanzo in un pomeriggio degli anni ’90, in vestaglia di felpa e diverse sigarette sulla poltrona reclinabile della mia camera da studentessa.
Quelle quattrocento pagine sono facili e brutali da leggere, scorrono via bene come il sangue, arrivi in un lampo all’ultima ed è come se una scheggia ti trafiggesse e tu muori, con lui, con Paul, e ti diventa chiaro che la guerra è l’annullamento del valore della vita di tutti, pure di quella più preziosa, pure della tua.
In tedesco il titolo è più bello e più corto (non capita quasi mai, no?): Im Westen nichts Neues e l’autore è Erich Maria Remarque, all’anagrafe Erich Paul Remark, che fu soldato a diciannove anni pure lui.
Copio un pezzo che parla più o meno di questo: Paul si è nascosto in una buca fatta da una bomba, di notte, e all’improvviso un soldato nemico ci cade dentro, nel panico Paul lo pugnala e “il nemico” muore agonizzando lentamente davanti a lui.
Se non avete voglia di leggere tutto, saltate fino all’ultimo paragrafo.
Si è fatto un poco chiaro. Sto per voltarmi un poco e cambiar posizione, quand’ecco qualcosa ruzzola giù – un tonfo in acqua – un corpo pesante è cascato nella buca, addosso a me…
Non penso, non decido, colpisco pazzamente, sento che il corpo sussulta, e poi si affloscia e s’insacca: quando ritorno in me, ho la mano bagnata, viscida…L’altro rantola. Ho l’impressione che urli, ogni suo respiro è come un grido, un tuono, ma sono soltanto le mie arterie che battono. Vorrei tappargli la bocca, riempirla di terra, pugnalarlo ancora: deve tacere, mi tradisce; ma sono già tanto tornato in me, e sono a un tratto così debole, che non posso più alzar la mano contro di lui.
Mi trascino dunque nell’angolo più lontano, e resto là, con gli occhi sbarrati, il coltello in pugno, pronto, se si muove, a saltargli addosso un’altra volta… Ma non farà più nulla, lo sento dal suo rantolare.
[…]
I minuti stillano a uno a uno. Non oso più guardare l’oscura figura dell’altro, che è con me nella buca. Guardo fissamente più in là, e aspetto, aspetto.
[…]
Guardo la mia mano insanguinata e all’improvviso provo un senso di nausea: prendo un po’ di terra e la sfrego sulla mano; così almeno si sporca e non vedo più il sangue.[…]
La figura dinanzi a me fa un movimento. Trasalisco e involontariamente guardo da quella parte. E i miei occhi rimangono fissi, come se fossero inchiodati. È un uomo con un paio di baffetti; la testa gli pende da un lato e posa inerte sul braccio a metà piegato. L’altra mano preme il petto, nero di sangue.È morto, dico a me stesso: deve esser morto, non sente più nulla; chi rantola è soltanto il suo corpo. Ma la testa tenta di sollevarsi, il gemito si fa per un istante più forte, poi la fronte ricade sul braccio. L’uomo non è morto; muore, ma non è morto ancora. Mi trascino verso di lui, mi arresto, punto sulle mani, poi scivolo un po’ più in là, aspetto ancora: un orribile cammino di tre metri, un lungo, terribile viaggio. Finalmente eccomi presso di lui.
Allora apre gli occhi: deve avermi sentito e mi fissa con un’espressione di indicibile orrore. Il corpo è immobile, perfettamente tranquillo, muto ormai, perché il rantolo è cessato; ma gli occhi gridano, urlano, tutta la vita si raccoglie in uno sforzo immenso, di fuggire, di fuggire; in uno spaventoso orrore della morte… e di me.
Io mi accascio a terra, sui gomiti: «No, no» mormoro.
I suoi occhi mi seguono. Non posso fare un movimento, finché mi fissano così.
Adagio adagio la sua mano si stacca dal petto, solo un piccolo tratto, pochi centimetri. Ma basta quel movimento a sciogliere l’incubo di quello sguardo. Mi piego su di lui, scuoto la testa e mormoro: «No, no, no» e alzo la mano, per mostrargli che lo voglio aiutare, e gli sfioro la fronte. A quel tocco gli occhi sembrano ritrarsi; ormai perdono la loro fissità, le ciglia si abbassano alquanto, la tensione cede. Allora gli sgancio il bavero e cerco di poggiare più comodamente la sua testa.
La bocca è semiaperta e si sforza di formulare parole. Ma le labbra sono aride. Non ho con me la borraccia, l’ho lasciata in trincea. Ma c’è dell’acqua motosa, giù nel fosso. Scendo, tiro fuori il fazzoletto, lo spiego nella melma, raccolgo nella mano l’acqua gialla che ne filtra. Egli la beve. Vado a prenderne ancora. Poi gli slaccio la giubba, per bendarlo se si può.Egli cerca di schermirsi, ma la sua mano è troppo debole. La camicia è attaccata alla piaga e non si lascia aprire; non mi resta che tagliarla. Allora cerco e ritrovo il mio coltello; ma quando comincio a tagliare la camicia, quegli occhi si spalancano di nuovo, e di nuovo v’è in essi quel grido, quel delirio, cosicché sono costretto a chiuderli, a tener le dita sulle palpebre, mentre mormoro: «Ma no, ma ti voglio soccorrere, compagno, camarade, camarade…». E ripeto con insistenza la parola, perché la capisca.
Sono tre pugnalate. Il mio pacchetto di medicazione le fascia, ma il sangue scorre sotto le bende; le comprimo e il ferito geme.
È tutto quello che posso fare. Ora non resta altro che aspettare, aspettare…Che ore! Il rantolo ricomincia: come è lento a morire un uomo! Perché lo so: salvarlo non è possibile.
È la prima creatura umana che io abbia ucciso con le mie mani, che io possa veder da vicino, e la cui morte sia opera mia.Non so che cosa darei perché rimanesse in vita. È duro starsene qui, doverlo vedere, doverlo udire…
Alle tre del pomeriggio è morto.
Respiro: ma per poco tempo. Il silenzio mi sembra ben presto anche più insopportabile che quel gemere di prima. Il silenzio diventa lungo e vasto. Io mi metto a parlare, debbo parlare. Mi rivolgo al morto e gli dico: «Compagno, io non ti volevo uccidere. Se tu saltassi un’altra volta qua dentro, io non ti ucciderei, purché anche tu fossi ragionevole. Ma prima tu eri per me solo un’idea, una formula di concetti del mio cervello, che determinava quella risoluzione. Io ho pugnalato codesta formula. Soltanto ora vedo che sei un uomo come me. Allora pensai alle tue bombe a mano, alla tua baionetta, alle tue armi; ora vedo il tuo volto e quanto ci somigliamo. Perdonami, compagno! Noi vediamo queste cose sempre troppo tardi. Perché non ci hanno mai detto che voi siete poveri cani al par di noi, che le vostre mamme sono in angoscia per voi, come per noi le nostre, e che abbiamo lo stesso terrore, e la stessa morte e lo stesso patire… Perdonami, compagno, come potevi tu essere mio nemico? Se gettiamo via queste armi e queste uniformi, potresti essere mio fratello, come Kat, come Alberto. Prenditi venti anni della mia vita, compagno, e alzati; prendine di più, perché io non so che cosa ne potrò mai fare».
Io non vedo nemici, vedo solo uomini, e la guerra non la voglio.
La foto in apertura è di Vava975.
Erich Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, Oscar Mondadori