L’ultimo giorno e l’ultima poesia di Sylvia Plath

I bambini dormono al piano di sopra della casa di Fitzroy Road. Sylvia prepara loro del pane col burro e del latte e lo porta nella loro cameretta. Appoggia tutto sul comodino. Sigilla la stanza con dei panni che incastra nelle fessure della porta e spalanca le finestre. Qui ci vuole aria, e protezione.

È la sera del 10 febbraio 1963. È domenica.

Scende in cucina, chiude la porta e sigilla anche qui ogni fessura della stanza con lenzuola, asciugamani, abiti, tovaglie. Si avvicina alla stufa a gas, spalanca il forno e lo accende.

Sa che la mattina dopo arriverà presto una potenziale nuova baby sitter, ne ha bisogno, lei deve scrivere.

Ma la mattina dopo, quando arriva la ragazza e bussa, nessuno risponde. La baby sitter chiama l’agenzia, l’indirizzo è giusto. Fa un giro intorno alla casa e sente un bambino piangere. Chiede aiuto ad un operaio che lavora in un cantiere accanto alla casa al 23 di Fitzroy Road, la fa entrare.

L’odore di gas è insopportabile e Sylvia Plath è a terra, con la testa appoggiata sul piano del forno. È l’11 febbraio 1963. Sylvia ha 30 anni.

C’è un biglietto con un numero di telefono: “Per favore, chiamate il Dottor Horder“.

Sylvia, volevi davvero morire?

L’ultima poesia l’hai scritta il 5 febbraio, si chiama Orlo (Edge):

La donna è la perfezione.
Il suo morto

Corpo ha il sorriso del compimento,
Un’illusione di greca necessità

Scorre lungo i drappeggi della sua toga,
I suoi nudi

Piedi sembran dire:
Abbiamo tanto camminato, è finita.

Si sono rannicchiati i morti infanti ciascuno
Come un bianco serpente a una delle due piccole

Tazze del latte, ora vuote.
Lei li ha riavvolti

Dentro il suo corpo come petali
Di una rosa richiusa quando il giardino

S’intorpidisce e sanguinano odori
Dalle dolci, profonde gole del fiore della notte.

Niente di cui rattristarsi ha la luna
Che guarda dal suo cappuccio d’osso.

A certe cose è ormai abituata.
Crepitano, si tendono le sue macchie nere.

In originale:

The woman is perfected.
Her dead
Body wears the smile of accomplishment,
The illusion of a Greek necessity
Flows in the scrolls of her toga,
Her bare
Feet seem to be saying:
We have come so far, it is over.
Each dead child coiled, a white serpent,
One at each little
Pitcher of milk, now empty.
She has folded
Them back into her body as petals
Of a rose close when the garden
Stiffens and odors bleed
From the sweet, deep throats of the night flower.
The moon has nothing to be sad about,
Staring from her hood of bone.
She is used to this sort of thing.
Her blacks crackle and drag.

Sylvia, volevi davvero morire? 😦 Ti vorrei tanto abbracciare.


Riferimenti

Sylvia Plath – I giorni del suicidio, Stefania Caracci, Edizioni Rispostes

Sylvia Plath, Lady Lazarus e altre poesie, a cura di Giovanni Giudici, Oscar Mondadori