Dieci bustine di sonnifero, una camera d’albergo, un Premio Strega appena vinto, un amore finito, un amore neonato, la scrittura ovunque. Una nota vergata sul libro trovato sul comodino: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.”
Il 27 agosto 1950 Cesare Pavese si suicidò. Ci aveva pensato e rimuginato tante altre volte. Quel giorno, lo fece.
Mi blocco intimorita di fronte a chi ha saputo scrivere poesie, e non solo (lo grido!), misurate e feroci, di sangue e di foglie, che mi tormentano e mi confortano da sempre.
Di Pavese, io posso solo scrivere banalità, quindi ecco due poesie che vanno bene per questa giornata.
Da La terra e la morte:
Sei la terra e la morte.
La tua stagione è il buio
e il silenzio. Non vive
cosa che piú di te
sia remota dall’alba.
Quando sembri destarti
sei soltanto dolore,
l’hai negli occhi e nel sangue
ma tu non senti. Vivi
come vive una pietra,
come la terra dura.
E ti vestono sogni
movimenti singulti
che tu ignori. Il dolore
come l’acqua di un lago
trepida e ti circonda.
Sono cerchi sull’acqua.
Tu li lasci svanire.
Sei la terra e la morte.
3 dicembre 1945
Da Verrà la morte e avrà i tuoi occhi:
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Cosí li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
22 marzo 1950